E buongiorno!
Vi scrivo su un Frecciarossa che mi porta in Puglia: farò un weekend lungo a base di cozze e pasticciotti. Poi sarò a Roma, per un incontro con altri giornalisti nella casa editrice Laterza su come sta cambiando l’informazione.
Farò un po’ di giorni in smart working nella capitale: a proposito, consigliatemi il vostro miglior bar per lavorare da lì.
Ora, iniziamo con una storia lunga ma molto delicata.
Flashback.
1993.
J.K. Rowling è una madre single, vittima di abusi, depressa e in bancarotta. Scrive una bozza di un libro in un pub di Edimburgo, mentre la figlia Jessica dorme nel passeggino accanto a lei. Propone il testo a 12 case editrici. Una accetta.
Qualche anno dopo.
J.K. Rowling diventa l'autrice più di successo della storia, fatta eccezione per Dio.
La sua saga diventa la Bibbia di una generazione. Per anni racconta a milioni di ragazzi e ragazze valori come la lealtà, il coraggio, l’amore, l’inclusione e la celebrazione delle differenze.
Lei stessa diventa una leggenda, introdotta ad Harvard nel 2008 come «figura di ispirazione politica, sociale e morale».
06/06/2020.
Tutto crolla. A partire da questo tweet.
Lei continua.
E continua.
Shitstorm.
Non entro nel merito delle critiche.
Le critiche mi piacciono sempre.
Evviva le critiche.
Qui un bel sunto delle critiche.
Entro nel metodo usato da molti (molti, non tutti).
Metodo che si basa su due capisaldi:
1) L’annullamento di ogni margine di discussione.
Le frasi di J.K. Rowling sono definite sbagliate a prescindere. Noi siamo i giusti.
Il rischio è sempre quello dell’automatismo tanto caro alle discussioni social:
sentirsi offesi = avere ragione.
2) L’uso assoluto del suffisso -fobico .
J.K. Rowling è bollata come transfobica. Un suffisso che viene usato parecchio, nelle «discussioni», spesso senza particolari argomentazioni, prove o denunce, e che ha l’effetto micidiale di delegittimare immediatamente e alla radice ogni parola e persona.
Come dice uno dei miei comici preferiti Bill Maher, la parola «fobia viene dal greco e indicava una paura irrazionale, come quella per i ragni o per i germi. Ma adesso viene usata come suffisso per qualsiasi cosa non vi piaccia».
2020-2022
Le azioni di cancellazione nei confronti di J.K. Rowling non si contano. Tra le altre:
i dipendenti di Hachette (casa editrice della saga) minacciano lo sciopero.
gli amministratori dei due più grandi siti dei fan di Harry Potter rimuovono le sue foto dal sito e chiamano al boicottaggio corredando una pratica guida.
praticanti di Quidditch cambiano il nome in Quadball.
TikToker iniziano a coprire con lo scotch il suo nome dalle copertine dei libri (altri più arditi li strappano, altri ancora li bruciano).
J.K. Rowling non arretra.
Non pubblica il post di scuse, altro format incipiente della Woke culture. Difende le sue frasi, pubblica un saggio in cui le argomenta, e si fa promotrice di una appello firmato da 200 intellettuali contro il crescente clima di intolleranza sui social.
A chi le chiede se non si penta di aver distrutto la sua eredità, risponde: «Allora non mi avete proprio capito».
2023.
Tre anni dopo, un nuovo passo in avanti (o indietro) della Cancel Culture.
Il 10 febbraio esce Hogwarts Legacy, videogioco ambientato nell’universo di Harry Potter e tra i più attesi dell’anno. Milioni di prenotazioni, buone recensioni, moltissime critiche e campagne di boicottaggio.
Diverse testate specialistiche come TheGamer, GameSpot, GamesHub e Checkpoint Gaming decidono di non recensire il gioco «e di non produrre contenuti a riguardo, nonostante sia una delle uscite più importanti dell’anno e quindi porti molto traffico verso i siti che ne scrivono».
Il sito TheGamer decide «di non pubblicare alcun contenuto legato al gioco, mentre Rock Paper Shotgun, oltre a non recensirlo, pubblicherà una serie di articoli e anteprime di altri giochi che hanno come elemento comune il tema della magia, con una particolare enfasi su quelli prodotti da sviluppatori trans».
Giornalisti o cancellatori.
Eccolo il passo avanti (o indietro): l’ingresso nelle redazioni dei giornali della Cancel culture, questa volta travestita da scelta editoriale.
Qui dentro non parliamo di qualsiasi prodotto culturale anche indirettamente associato a una determinata persona - nonostante quel prodotto culturale rappresenti una storia interessante per i nostri lettori.
Un atteggiamento che storicamente associo più alla stampa dei Paesi dittatoriali, che alla stampa del Paese con la stampa migliore del Novecento.
Come ha sintetizzato bene Meghan Phelps-Roper, forse la persona più preparata al mondo sull’argomento (e che inizierà un podcast che si prospetta stupendo il 21 febbraio), «la storia di J.K. Rowling non è solo la storia di un’autrice, una donna o un tema. È un microcosmo del nostro tempo. È la storia della polarizzazione dell’opinione pubblica e della disintegrazione delle conversazioni pubbliche».
W la Diversity, ma mica di pensiero.
Vedo sempre più casi di questo genere. E non mi piace.
Non mi piace che siamo pronti a difendere la libertà di parola purché uguale alla nostra.
Ansiosi di includere persone diverse per colore della pelle, orientamento sessuale, identità di genere e tante altre caratteristiche identitarie, ma mai diverse per pensiero.
Inclusivi sì, ma con chi è già dentro.
Si potevano fare tante cose, che alcuni giornali hanno fatto.
Si poteva recensire il gioco, stroncarlo, presentarlo. Si poteva stroncare le parole della Rowling, ricostruire il dibattito o distruggerlo. Buttarsi in una storia, un punto di vista, persino in ciò che si considera il male, e raccontarlo facendo un ottimo servizio ai lettori.
Si potevano fare mille cose.
Perché tutte e mille, a differenza di quella scelta da questi giornali, rappresentano la stessa e unica cosa: il giornalismo.
🙌 Pezzi belli belli
🇩🇪 C’è questo doc di Rai Scuola sulla storia pazzesca della «Musica concentrazionaria», quella musica scritta nei campi di concentramento. Un italiano sta girando il mondo alla ricerca delle partiture che non sono mai state suonate, e dar loro nuova vita.
💃 Nei concerti le cantanti stanno iniziando a programmare mosse di danza pensate per diventare virali su TikTok. Dua Lipa call me.
📈 Quella storia del pulsante di TikTok per far volare un contenuto. Spiegata bene
☑ «Fatto sport. Andato in elicottero. Sposato». Su Lifechecklist potete fare il punto della vostra vita. E ricevere un punteggio.
🤬 Forse forse è vicina l’apocalisse Woke. E io sono molto contento.
.
⚒ Tools & How-to
Sito non male per crearvi le vostre forme personali.
Per Mark Cuban 2 parole separano chi fa da chi sogna.
Poe è un’app per Iphone che vi fa chattare con tutte le AI.
Ma scopriamo che font è.
«Se ti fa risparmiare tempo, compralo». Le mie 11 regole da Creator.
💵 Work
Amnesty International cerca un Social media.
Fanpage un Videoreporter.
TikTok un Video content review specialist.
Acne vuole un Copywriter.
Digital angels pure.
Alanews uno Sport editor.
Freeda un Community manager.
Ottimo e abbondante. Mi raccomando suggeritemi posti belli per lavorare a Roma.
A giovedì!
Ciao Francesco, leggo sempre con grande interesse le tue newsletter. Ti chiedo, da esperto, se questo trend della cancel culture non sia una delle conseguenze legate al fatto che ormai ogni dibattito è affidato ai social? Che ne pensi? I social sono un medium il cui format stesso non garantisce spazio all'approfondimento, ma è fatto per offrire ai fruitori una "sintesi" che spesso aumenta le polarizzazioni, le divisioni, le controversie. E cancella lo spirito critico. Ma l'aspetto più preoccupante è che i social - pur apparentemente assurgendo a paladini della libertà di espressione e pur avendo dato vita a fenomeni interessanti come il citizen journalism - ora stanno condizionando il mondo dell'informazione. Mi spiego meglio: conosco molti colleghi giornalisti che preferiscono autocensurarsi preventivamente su temi "divisivi" proprio per non diventare vittime di shitstorm sui social. Oppure, al contrario, cavalcano la "polemica" (e non la "notizia") per allinearsi alle necessità editoriali di far aumentare il traffico sui siti di informazione. Sarebbe interessante un tuo approfondimento su questa "(dis)evoluzione". A presto! Silvia
Non capisco cosa tu stia cercando di fare mettendo in dubbio i meccanismi dell’inclusione stessa e facendo di questa battaglia assurda contro lo spauracchio della cancel culture, un ruolo e una reputazione, oltre che una fonte di guadagno. E mi spiace, perché apprezzo tanto altri tuoi contenuti, ma questo proprio non lo concepisco.
Ti occupi della vicenda di J.K. Rowling “senza entrare nel merito delle critiche”, che di fatto vuol dire ignorarle e delegittimarle in tutto il pezzo. Hai affrontato un fenomeno estremamente complesso, che ha coinvolto una comunità marginalizzata che evidentemente non hai preso in considerazione come interlocutore del tuo pezzo giornalistico, ignorandone completamente il punto di vista. Anzi, riducendo il motivo della presa di posizione e denuncia da parte di personaggi dello spettacolo direttamente a contatto con la scrittrice, direttamente coinvolti nel mondo di Harry Potter e un ampissimo mondo della fan scene che ha preso una forte posizione a favore della comunità trans per evidenti motivi che evidentemente non senti tuoi a un “sentirsi offesi”. Un motivo che si chiama transfobia, che hai a malapena nominato, e che anzi, hai cercato di depotenziare e delegittimare. Prima considerandolo un suffisso usato “senza particolari argomentazioni”. Poi, citando le parole di uno dei tuoi comici preferiti per avvalorare il tuo punto di vista, riducendo qualsiasi cosa che finisce con “fobia” come un suffisso usato per qualsiasi cosa che non piaccia”.
Non solo. Continui a usare questo spauracchio odioso della cancel culture, usato dagli stessi che portano avanti le battaglie contro il “politicamente corretto” associato alla “woke culture”, di fatto riproducendo le stesse dinamiche di polarizzazione che denunci sia in questo pezzo che nel tuo libro. Nella parte finale della tua newsletter ipotizzi “l’ingresso nelle redazioni dei giornali della cancel culture, travestita da scelta editoriale”, “atteggiamento che storicamente associo più alla stampa dei paesi dittatoriali“ con la stessa vaghezza di argomentazioni che recrimini a personaggi che critichi nei tuoi reel, senza davvero parlare di eventi concreti. Dove sono qua le 5 W di cui parli tanto?
Parli di libertà di parola, nello stesso contesto in cui stai delegittimando un fenomeno iper-complesso. Metti in discussione quella che secondo te non è inclusione, ma non ti esprimi su cosa sia davvero, o cosa dovremmo intendere come inclusione. Ridicolizzi il concetto di “diversity”, associandolo al “pensiero unico” (cito: w la diversity, ma mica di pensiero). Qual à questo pensiero “diverso” che la woke culture non vuol includere? E tu che punto di vista hai portato? Che cosa stai difendendo? È polarizzazione, “disintegrazione delle conversazioni pubbliche”, o semplicemente delegittimazione di un punto di vista che non è il tuo? Qual è il messaggio che vuoi far passare?